Come il Pinkwashing mercifica le questioni di genere

8 Marzo 2021, di bake

Quando dietro al fiocco rosa si nasconde il pinkwashing! Cos’è e perché il marketing lo sfrutta.

Marzo è per eccellenza il mese che celebra la donna con la Festa della Donna e i brand non perdono occasione per fare pinkwashing.  

Sempre più spesso i brand si schierano a favore di alcune cause sociali, come la salute e l’emancipazione femminili. Tuttavia quando questo avviene senza un reale impegno verso tali temi, ma con il solo scopo di lucro, si verifica il pinkwashing.

 

Cos’è il pinkwashing?

La parola pinkwashing nasce dalla crasi tra “pink, rosa, e “whitewashing, imbiancare o nascondere. Si potrebbe tradurre con “nascondere con il rosa”, come a coprire di rosa i prodotti e il brand. Il colore richiama al noto fiocco rosa, usato come simbolo della lotta contro il cancro al seno. L’espressione pinkwashing nasce intorno agli anni Novanta come critica verso una specifica attività di marketing e fu un’associazione per la lotta contro il cancro al seno a usarla per la prima volta. Questa associazione tentò, infatti, di identificare e smascherare le aziende che dichiaravano il loro impegno a favore della causa solo per pubblicizzarsifingendo di sostenere e aiutare le donne malate per trarre profitto ottenere visibilità.

 

 

E nell’ambito del marketing?

Ipinkwashing viene associato al greenwashing, da cui, infatti, ha ereditato dinamiche, tecniche e critiche. Nel marketing, il greenwasing  identifica quelle strategie pubblicitarie basate sul rispetto dell’ambiente. È una tecnica che ha lo scopo di convincere il target a preferire i propri prodotti perché più “verdi”, giocando sulla sensibilità delle persone. Come per il pinkwashing e il greenwashinganche il più recente rainbow washing è un neologismo che descrive la strategia di accostare l’appoggio dei brand alle comunità LGBTQ+ per ottenere visibilità e incrementare le vendite di un prodotto.

 

Perché i brand usano il pinkwashing?

La caratteristica che rende il pinkwashing attraente per le aziende è il suo essere trasversale ed applicabile a più settori, come la cosmesi, l’abbigliamento, i gioielli, il cibo ecc. Numerose aziende adottano questa tecnica, che illude il consumatore inducendolo a credere nell’eticità debrand, portandolo a compare più volentieri i suoi prodotti. Essere (o in questo caso, fingersi) etici, migliora la reputazione dell’azienda, che mostra un atteggiamento solidale ed attento. Il pinkwashing aumenta, inoltre, il numero dei clienti, che vengono catturati dalla sensibilità del brand verso temi da cui si sentono coinvolti. 

Con il tempo, tuttavia, i consumatori sono diventati sempre più esperti e sensibili di fronte a questioni etiche come l’emancipazione femminile e per loro è diventato più semplice smascherare gli approfittatori. Ecco, allora, che le aziende hanno iniziata ricevere importanti accuse di sfruttamento, con la conseguente perdita di credibilità. 

 

 

Il pinkwashing di Avon

Un esempio che ha suscitato molte polemiche è stato il caso Avonnota azienda produttrice di cosmeticiNel 2001 Avon ha lanciato la campagna di raccolta fondi “Kiss Goodbye to Breast Cancer tramite la vendita di una nuova gamma di rossetti, i cui proventi sarebbero stati devoluti alla lotta contro il tumore al seno. Tuttavia, la composizione chimica di questi rossetti vedeva la presenza di parabeni, sostanze cancerogene particolarmente utilizzate nella cosmesiAlle accuse Avon ha risposto puntualizzando che negli Stati Uniti l’utilizzo dei parabeni in ambito cosmetico è perfettamente legale. Il caso, in realtà, non venne ulteriormente approfondito fu semplicemente lasciato sbiadire. Quello che aspramente emerge, tuttavia, è la mercificazione di un simbolo che per molte donne è segno di una battaglia personale.

 

Il caso KFC 

Un esempio più recente, che ha creato ancora più scalpore, è stato quello dei “secchielli rosa” di KFC, famosa catena di fast foodQuando nel 2010 KFC annunciò la collaborazione con Komen, associazione che si occupa della lotta contro il cancro al seno, decise di customizzare i famosi secchielli di pollo fritto rendendoli rosa. Per ogni secchiello venduto nei mesi tra aprile e maggio sarebbero stati donati 50 centesimi all’associazione Komen. L’iniziativa venne chiamatBuckets for the Cure.

 

 

Al termine della campagna furono raccolti ben 4 milioni di dollari da devolvere all’associazione, tuttavia emerse che i soldi erano già stati devoluti all’associazione a priori, ovvero prima della fine della campagnaSi scoprì, così, che l’obiettivo primario di KFC era quello di ottenere visibilità e consensi, facendo leva su un tema sentito dall’opinione pubblica. Anche se l’iniziativa viene ricordata per il suo grande atto di generosità, viene additata come uno dei più grandi casi di pinkwashing: promuovendo la lotta contro il cancro al seno KFC voleva solo farsi pubblicità 

 

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